Veles e il mercato delle fake news in Macedonia
C’era una volta la Jugoslavia, repubblica comunista di stampo autoritario che occupava buona parte della penisola balcanica. Al suo interno, nell’attuale Macedonia del Nord, sorgeva il comune di Veles, centro industriale delle porcellane balcaniche. Si sa, il mercato delle ceramiche non poteva durare per sempre, e le fabbriche della città chiusero. Gli abitanti si trovarono di fronte a una depressione economica e sociale gravissima, e pensarono un nuovo bene da produrre ed esportare, più appetibile di una tazza di porcellana: le fake news.
La Macedonia è uno di quei paesi del dileguato blocco sovietico in cui l’economia è stata distrutta dalla caduta del comunismo, nonostante continui a ostentare una sfacciata ricchezza: basti pensare alla maestosità (kitsch) della capitale Skopje. Eppure il tessuto sociale è stato devastato da anni di stagnazione, inefficienze e corruzione. Il PIL pro capite si ferma a 14.500 dollari (100° posto nella classifica mondiale), mentre l’Indice di Sviluppo Umano la pone in ottantaduesima posizione. Veles può essere un chiaro esempio del degrado in cui versa la Macedonia: alta disoccupazione, stipendio medio che si aggira sui trecento euro, un passato caratterizzato dal narcotraffico. Non ci sono occasioni di svago per i suoi 55.000 abitanti, se non il vicino lago artificiale Mladost.
Dati questi presupposti, non ci sarebbe motivo per cui la città dovrebbe ricevere attenzioni globali. Eppure nel 2016 i media d’oltreoceano rivolsero lo sguardo proprio sui suoi abitanti. «The Guardian» e «BuzzFeed» rivelarono che più di cento siti di disinformazione pro-Trump avevano origine in Macedonia, o meglio a Veles; l’attività si concentrò soprattutto nelle ultime settimane di campagna elettorale, svelando quella che viene definita la “corsa all’oro digitale”. L’opera di queste pagine era giustificata da scopi economici: grazie alla pubblicità, principalmente fornita da Google, i proprietari erano in grado di trarne ingenti ricavi in un Paese con retribuzioni estremamente basse, come raccontato da Boris, pseudonimo di uno di questi creatori di contenuti intervistato da «Wired».
Boris, creatore di fake news
Il ragazzo, all’epoca uno studente delle scuole superiori, notò un articolo (falso, ovviamente) che raccontava come Trump avesse schiaffeggiato un uomo del pubblico, durante un comizio in North Carolina, a causa di una contestazione. Decise di rilanciarlo, con lievi modifiche, e il risultato fu inaspettato: centinaia di condivisioni su Facebook e un guadagno, grazie alla pubblicità, superiore ai centocinquanta dollari. Realizzato il potenziale di questa nuova attività, Boris decise di lasciare la scuola e dedicarsi a tempo pieno al rilancio di fake news.
I risultati non si lasciarono attendere: tra agosto e novembre, il ragazzo guadagnò 16.000 dollari, cifra difficilmente immaginabile per un diciottenne in Macedonia. Bisogna sottolineare come non ci fosse alcun interesse politico in questo genere di attività: non c’è nessuna morale dietro ai prodotti di questi siti, nessuna ideologia. L’unico obiettivo era ottenere soldi per pagarsi serate con gli amici e beni di lusso da esibire: macchine, telefoni, computer.
L’interesse di Boris nacque proprio da un’auto, una BMW parcheggiata lungo il tragitto verso la scuola. Colpito dal veicolo cominciò a fare domande per identificarne il possessore, senza ottenere risultati. Ossessionato da quella visione, continuò la sua ricerca con costanza fino a imbattersi nel proprietario, il quale gli rivelò di aver pagato l’automobile grazie ai profitti ottenuti dal suo sito internet. È grazie a questo spunto che iniziò l’attività di Boris in rete, così come, da simili episodi, cominciò quella di molti altri suoi “colleghi”. Copiava, al massimo riformulando, notizie a favore dei Repubblicani trovate su siti di estrema destra per poi diffonderle nei gruppi pro-Trump, sfruttando la cieca ideologia dei lettori. Per meglio diffondere i suoi prodotti acquistò circa duecento profili Facebook.
Forse dietro a questa produzione di fake news in Macedonia c’è un uomo, Mirko Ceselkoski, detto “l’avvoltoio”. Da anni Ceselkoski tiene corsi a pagamento in cui forma giovani, promettendo loro facili guadagni grazie alla creazione e alla diffusione di fake news. Egli ha ottenuto una fama nazionale e continua nella sua attività, preparandosi per le future elezioni.
La lotta alle fake news: dai colossi del web allo stato macedone
Tuttavia, con il passare del tempo, Google e Facebook capirono quanto siti simili stessero influenzando le elezioni. Decisero pertanto di limitare la loro diffusione e rimuovere la pubblicità. Mancando così l’unico motivo della loro esistenza, il risultato è stata la chiusura o l’inattività di queste pagine web, ma il danno ormai era evidente. Gli stessi proprietari dei siti rimasero stupiti dall’influenza che erano riusciti a esercitare.
La Macedonia, ma soprattutto la città di Veles, si è ritrovata così a diventare patria mondiale delle fake news. Gli abitanti della città al centro di questa storia di sfrenato capitalismo non parlano volentieri di Trump e dei siti che lo aiutarono a vincere, imbarazzati da quanto successo. L’immagine del Paese, che tenta di entrare nell’Unione Europea e uscire da questa condizione di povertà, risulta così profondamente danneggiata, soprattutto oltreoceano, dove i fatti sono stati raccontati dettagliatamente da testate giornalistiche e televisive.
Proprio per questo motivo, la Macedonia ha deciso di prendere contromisure per contenere il ripetersi di episodi simili. Lo Stato ha avviato progetti per formare gli studenti sull’utilizzo del web e mostrare gli effetti negativi della disinformazione. Questo programma, detto MAMIL, è stato scelto come uno dei migliori dieci in Europa per l’educazione digitale nel 2019. I risultati sono promettenti e possiamo solo sperare, insieme al popolo macedone, che simili episodi rimangano confinati nel passato.
A cura di
Federico Villa
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