Mentre il mondo intero segue le proteste scatenate dalla morte di George Floyd, Trump inizia una nuova faida contro Twitter. Da anni accusa i social network di ridurre la visibilità dei Repubblicani e sembra che abbia infine deciso di passare all’azione. Il perché? Chiedere a Jack Dorsey.
Il CEO di Twitter
Jack Dorsey, originario del Missouri, è stato tra i fondatori di Twitter, social nato nel 2006. Il quarantatreenne americano, dopo esserne stato CEO per due anni, è tornato a ricoprire quel ruolo solo nel 2015, in seguito ad un periodo di difficoltà della società. Dorsey è una figura da sempre discussa: apprezzato per la filantropia ma criticato per alcune sue posizioni ambigue. Basti pensare che perse il ruolo di CEO nel 2008, in quanto lo yoga lo portava a lasciare il lavoro troppo presto.
Dopo l’indagine statunitense sull’influenza russa durante le elezioni del 2016, Twitter ha deciso di bloccare le inserzioni pubblicitarie di alcuni siti russi tra cui «Sputnik». Il social aveva già oscurato molti tweet volti a influenzare le elezioni, come nel caso delle mail sottratte ai Democratici. A partire da novembre 2019, infine, il social non consente più pubblicità politica. La scelta è giustificata, come affermato dallo stesso Dorsey, dall’impatto che tali pubblicità hanno sull’opinione pubblica.
Trump e Twitter: i precedenti
L’approccio di Twitter con i profili istituzionali, soprattutto per quanto riguarda gli Stati Uniti, è rimasto tuttavia diverso per molto tempo. Nel periodo in cui Trump cominciò a twittare contro la Corea del Nord, molti accusarono il social network di complicità con le politiche del presidente. La società si rifiutò tuttavia di rimuovere tali contenuti a causa del loro valore pubblico. Le regole sui tweet violenti, inoltre, non si applicavano agli account governativi: una loro rimozione avrebbe portato a un’amplificazione del messaggio tramite le polemiche scatenate. Qualche settimana fa, tuttavia, qualcosa è cambiato.
La svolta di del social network
La decisione di etichettare i contenuti fuorvianti come tali risale a marzo di quest’anno, e ribadita nuovamente a maggio. Il risultato non ha tardato ad arrivare: il 26 maggio Twitter ha segnalato per la prima volta dei messaggi del presidente americano. Trump sostiene, in questi due tweet, che il voto via posta sia totalmente inaffidabile, essendo le schede facilmente rubabili. Si spinge poi oltre, affermando che il governatore della California, un Democratico, stia inviando più schede elettorali del dovuto per influenzare il voto. Poco dopo è arrivata la reazione della piattaforma. Sotto al tweet è spuntata una frase in blu:
“leggi come stanno le cose sul voto postale”.
Aprendo il link si arriva a un articolo della CNN che chiarisce le imprecisioni dette dal presidente. Si deve infatti ricordare la tendenza di Trump a distorcere la realtà: secondo una ricerca del «Washington Post», il presidente americano ha rilanciato, o inventato, almeno 18.000 falsità durante il suo mandato. Non è molto chiaro quanto misure simili siano realmente efficaci, ma questo cambio di linea del social network non è passato inosservato.
La risposta di Trump nei confronti di Twitter
Trump ha subito affermato di voler modificare la legislazione dei social network. Ha cominciato a circolare una bozza di decreto in cui si afferma che le piattaforme social devono essere responsabili di ciò che viene pubblicato. In tal modo, il social network diventa l’editore di ciò che viene pubblicato da terzi, con tutte le responsabilità legali del caso. Una modifica simile non sarebbe tuttavia gestibile: per le piattaforme, per le attività economiche che si basano su di esse e per i tribunali che sarebbero sommersi da nuove cause.
Per ora il decreto sembra dimenticato, ma Dorsey ha dimostrato di non avere alcuna paura: due giorni dopo, il 28 maggio, si è spinto oltre. Twitter ha infatti segnalato un contenuto postato da Trump in cui si dice:
“quando iniziano i saccheggi, iniziano le sparatorie”.
La frase incriminata viola infatti il regolamento della piattaforma, in quanto “inneggia alla violenza”. Nella segnalazione si spiega che il post comunque non verrà rimosso in quanto ritenuto di pubblica utilità.
Trump ha poi trovato un altro motivo per accusare i social network di censura: la rimozione di un video riguardo la morte di George Floyd, da lui pubblicato. La polemica non dovrebbe neanche esistere: il video è stato rimosso per violazione del copyright, dato che venivano riprodotte alcune canzoni senza autorizzazione.
Le fake news di One American News
Il 9 giugno, sempre su Twitter il tycoon ha rilanciato una tesi (assurda) di «One America News»(OAN) secondo cui il settantacinquenne spinto a terra dalla polizia a Buffalo sarebbe un provocatore. Martin Cugino si sarebbe avvicinato per sabotare le comunicazioni della polizia. Sarebbe poi caduto più violentemente di quanto sarebbe dovuto accadere in base alla spinta ricevuta. La tesi è ovviamente insostenibile, a maggior ragione in quanto l’uomo è stato ricoverato e pare abbia subito danni cerebrali.
Ciò che è più interessante di questo tweet è l’origine della “notizia”. «One America News» sostiene da tempo tesi complottiste. Questa descrizione dei fatti di Buffalo proviene da una giornalista senza alcun credito, ma con legami non ben definiti con «Sputnik». La testata russa, vicina al governo di Putin, è solita diffondere notizie false a scopo di propaganda, risultando infatti nella blacklist di Twitter, come detto in precedenza.
Per ora il presidente non ha preso drastiche decisioni, e dovremo aspettare per capire i prossimi sviluppi, ma i social network cominciano a muoversi. Il 4 giugno anche Snapchat ha deciso di schierarsi contro le fake news del presidente, informando che non promuoverà più i post nella sezione Discovery.
A cura di
Federico Villa
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