Che cos’è il victim blaming
Il victim blaming o colpevolizzazione della vittima si verifica quando le persone giudicano chi ha subito una violenza, un abuso (generalmente di natura sessuale) o chi è semplicemente vittima di un’ingiustizia, accusandolo di esserne responsabile. È una tendenza riassumibile nella frase “se l’è cercata” o “se l’è meritato”. È un ragionamento che stravolge la visione degli eventi, spostando il focus dall’aggressore alla vittima. Paradossalmente nel victim blaming è la reputazione della vittima stessa a essere macchiata. Infatti, nella nostra società capita che si riscontri, in risposta a un episodio di violenza, la propensione ad attibuire la colpa dell’accaduto a quest’ultima, dubitando altresì della sua credibilità. Addirittura molti affermerebbero che la situazione è stata sicuramente ingigantita e che la gravità del fatto è minore di ciò che si vuol far credere. Si preferisce in questo caso sminuire la violenza e metterla a tacere. Questo meccanismo a lungo andare innesca vergogna, paura, sensi di colpa, d’impotenza e rischia di disincentivare a poco a poco le vittime a denunciare, poiché hanno completamente perso la fiducia nelle Autorità, dal momento che le conseguenze per i carnefici, molto spesso, sono nulle. Il victim blaming, dunque, si potrebbe definire come una vera e propria tecnica manipolativa adottata dal vero colpevole: in questo modo la vittima si convince di essere lei stessa la causa della molestia subita.
La colpevolizzazione della vittima nasce, soprattutto per quanto riguarda le donne, da ragionamenti estremamente maschilisti e patriarcali secondo cui queste ultime non sono necessariamente prive di colpe; al contrario hanno in qualche modo acconsentito alla violenza attraverso le parole, l’abbigliamento o presunti atteggiamenti provocatori ed espliciti che l’aggressore ha, di conseguenza, interpretato come un permesso.
Putroppo questo modo di pensare è il risultato di un processo di apprendimento e interiorizzazione. È un approccio automatico a cui la società è stata educata. Infatti sono milioni le donne che nel corso degli anni, generazione dopo generazione, hanno subito violenze, e sono anche le stesse a cui è stato insegnato che certe cose funzionano in un determinato modo e che, quindi, è inutile opporsi.
I crimini e le ingiustizie che, più di frequente, vedono presentarsi questo fenomeno sono:
- Abusi sessuali;
- Abusi emotivi;
- Bullismo;
- Isolamento o emarginazione della vittima;
- Stupri;
- Violenze a sfondo razziale;
- Violenze domestiche.
Il victim blaming come fenomeno sociale
Come accennato precedentemente il victim blaming è un fenomeno sociale, nonché un’emergenza nazionale che coinvolge tutti, uomini e donne. Nel corso del tempo ci sono stati vari casi eclatanti che qui di seguito andrò ad illustrare:
- Nel 1999, in Italia, la Corte di Cassazione ha negato una violenza sessuale perché la vittima indossava un paio di jeans. Ha poi giustificato questa decisione affermando che secondo un “dato di comune esperienza” non sarebbe possibile togliere i jeans, nemmeno in parte, ad un’altra persona senza la sua attiva collaborazione. In questa “sentenza dei jeans” (nome con cui viene ricordata oggi), viene quindi ritenuto che tra i due ci fosse stato un rapporto sessuale consenziente.
- Più recentemente, sempre in Italia nel luglio 2018, in merito a uno stupro di gruppo, la Corte di Cassazione ha stabilito che non fosse lecito aggiungere l’aggravante del ricorso a sostanze alcoliche e stupefacenti nell’accusa, in quanto la vittima le avrebbe assunte volontariamente.
- Nel novembre 2018, in Irlanda, un ragazzo accusato di stupro viene assolto in quanto la vittima indossava un perizoma. Questa sentenza ha scatenato una rivolta sia fisica che social. In particolare il popolo di Instagram ha generato l’hashtag #ThisIsNotConsent per esprimere il proprio dissenso, ma soprattutto per sottolineare che una mutanda di pizzo non equivale al consenso.
È chiaro, quindi, come ciascuna di queste sentenze abbia palesemente fatto passare il messaggio che fosse stata la vittima, in seguito alle proprie azioni, a legittimare la violenza subita, sottintendendo inoltre che si fosse voluta mettere di proposito in quella situazione. Ci si focalizza sui pensieri e sulle intenzioni piuttosto che sui fatti, che spesso vengono considerati più rilevanti dell’accaduto in sé.
Istintivamente la società addita la vittima al posto di sostenerla, perché “doveva aspettarselo”. Questa forma di pensiero è ormai largamente diffusa, e viene applicata nella maggior parte degli ambiti di vita. Infatti, stando all’opinione pubblica predominante:
- Chi è stato truffato doveva essere più sveglio.
- Chi ha subito violenza sessuale poteva tranquillamente evitare di uscire svestita e anche di bere.
- La vittima di violenza domestica si è cacciata da sola in quella situazione, perciò se l’è cercata.
Diciamo che la società, in quanto a empatia e solidarietà, lascia davvero molto a desiderare. Piuttosto accusa chi di colpe non ne ha. É incline a pensare che questi fatti, che purtroppo sono all’ordine del giorno, siano normali. In questi casi, però, normalizzare significa anche accettare. Accettare che una ragazza debba temere per la propria incolumità perché cammina sola in tarda serata, indossa una minigonna oppure addirittura credere che sia lecito approfittarsi di lei perché ha alzato un po’ il gomito, è sinonimo di una società malata. La questione, infatti, è molto più insidiosa e profonda di quello che sembra.
Il victim blaming nei crimini sessuali
In questo caso, abusi e violenze sarebbero provocati dal flirtare, dal tipo di abbigliamento indossato, dal linguaggio o dagli atteggiamenti definiti “espliciti” adottati dalla vittima.
Il victim blaming nella violenza domestica
In queste situazioni si cercano di identificare tra i comportamenti della vittima il motivo che avrebbe scatenato l’ira del maltrattante. La colpa non viene mai attribuita solo ed esclusivamente al vero artefice. Spesso si sente dire:
- “Perché lei non l’ha lasciato?”
- “Perché ha sopportato così a lungo?”
- “Perché ha aspettato che le cose peggiorassero?”
Ancora una volta l’attenzione è rivolta alla vittima e non al carnefice perché si tende a voler individuare una responsabilità congiunta tra i due partner. La donna, nella violenza domestica, generalmente evita di chiedere aiuto e a tenta di minimizzare l’accaduto, pensando addirittura di star esagerando a valutare la propria situazione.
Il victim blaming nei crimini d’odio
In alcuni casi l’orientamento sessuale funge da alibi per la violenza. Si tratta del cosiddetto “panico da gay” secondo cui l’omicidio di un omosessuale sarebbe giustificato dalla paura e dalla collera nei confronti di questa comunità. Lo stesso vale per i reati commessi in nome di un’ideologia razzista, in particolar modo verso la comunità nera che fin dai tempi più remoti è stata dipinta come pericolosa. Non a caso, fin da bambini sentiamo parlare dell’uomo nero come figura che è bene temere. Questo è un altro esempio che fa vedere in che modo, talvolta anche inconsciamente, ci vengono proposti dei modelli e delle concenzioni errate, che però rischiano di insinuarsi in maniera velata tra i nostri pensieri, facendoci vivere e vedere la realtà con occhi carichi di pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni.
Il victim blaming nei social media
Gli episodi di violenza o abuso sono spesso riportati in modo inappropriato, sia a livello mediatico che giornalistico. Le notizie si concentrano principalmente sul descrivere come era vestita la vittima; invece, per quanto riguarda l’aggressore, vengono usati aggettivi quali “brava persona” che ha semplicemente commesso uno sbaglio. I sentimenti prevalenti sono lo stupore e l’incredulità, quasi a voler negare la violenza messa in atto, perché infondo appunto non sarebbe una persona che generalmente agisce in questi termini. Questo fa alludere che la responsabilità sia comune, o addirittura completamente di colei/colui che ha subito il torto.
Il modo in cui vengono esposte e scritte le notizie è fondamentale tanto quanto il loro contenuto. Nello specifico, in merito alla violenza di tipo sessuale, se un giornalista o i media si soffermano sull’abbigliamento (vestiti scollati o succinti ecc…), sullo stato della vittima nel momento dell’accaduto, magari di ubriachezza e di conseguente poca lucidità, si crea immediatamente nella mente del lettore un nesso logico tra i due elementi, considerando la violenza come conseguenza quasi prevedibile.
Tra le righe, quindi, si legge questo:
A) Se ci si comporta in un certo modo allora bisogna conoscere i rischi ed essere in grado di prevederli/anticiparli.
B) Sicuramente da sobria e più coperta la violenza non sarebbe mai avvenuta.
Da quando, però, è giusto limitare la propria libertà per non ritrovarsi in situazioni minacciose e potenzialmente letali? Questo fa capire molto rispetto alla società in cui viviamo.
Ma quali possono essere le conseguenze di questa pratica? Puoi scoprirlo qui.
A cura di
Rebecca Brighton
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