Instagram e i pronomi di genere
Il tema della discriminazione basata sul genere o sull’orientamento sessuale/affettivo ha assunto un peso sempre maggiore nella società e l’impatto di queste discussioni comincia a farsi sentire sempre più anche nel mondo digitale: un esempio su tutti riguarda Instagram e i pronomi di genere. Tra pronomi e proposte di una nuova grammatica è bene fare un po’ di chiarezza cercando di capire quanto la tecnologia ci influenzi o viceversa.
Il linguaggio inclusivo
Tutte le riflessioni che seguono appartengono al dibattito sul cosiddetto “linguaggio inclusivo”, privo cioè di tratti che riflettano opinioni discriminatorie verso particolari gruppi di persone. Per capire quanto il problema sia spinoso basta notare che il termine stesso “inclusivo” è stato messo sotto accusa e non senza valide ragioni. Il sostantivo “inclusione” implica che ci sia qualcuno che include (quindi in una posizione di forza) e qualcuno che viene incluso. Appare subito chiaro, quindi, che trovare forme che comprendano qualunque possibilità è tutt’altro che semplice.
Il linguaggio inclusivo non è una novità degli ultimi anni, soprattutto in rete. La forma “neutra” ottenuta tramite l’uso dell’asterisco, ad esempio, è da tempo diffusa nelle e-mail. Allo stesso modo, chi non ricorda le discussioni di qualche anno fa, infuocate sui social, riguardo a “il presidente”/“la presidente”/“la presidentessa”? Più recentemente, però, il problema si è infittito con il venire a galla della necessità di considerare tutti coloro che non si identificano nel sistema binario uomo-donna. E così i social network hanno deciso di prendere una posizione.
I pronomi su Instagram e LinkedIn
Nell’ultimo periodo Instagram e LinkedIn hanno introdotto anche in Italia la possibilità di inserire nella propria bio i pronomi con cui si vuole essere identificati. Le possibilità sono she/her, he/him e they/them. In questo modo, secondo le intenzioni delle piattaforme e di chi nel tempo ha sostenuto questa triplice possibilità, si toglie la difficoltà di inserirsi in una delle due caselle ben definite per tutti coloro che si identificano come non-binari.
Il non-binario “they”, in inglese noto come “singular they” non è una novità: già nel 2015 la American Dialect Society l’aveva eletta come parola dell’anno. Le prime testimonianze di questa forma, tuttavia, sono ben più antiche: vediamo usare il “they” come singolare addirittura nell’opera massima di Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury, della seconda metà del 1300. Così come nell’Amleto del 1599 di Shakespeare o in Orgoglio e pregiudizio nel 1813. Lo scopo non era quello di definire persone come non-binarie, ma la forma è tollerata da secoli nella lingua inglese.
L’intenzione dei social di offrire questa terza possibilità, tuttavia, non è stata accolta sempre caldamente dai movimenti LGBTQ+. Come viene fatto notare in alcuni blog, infatti, questa identificazione sottolineerebbe ancora una netta differenza tra she/he e they, di fatto evidenziando la differenza. Oltre a ciò, per molte persone non-binarie, questa indicazione in testa al profilo non è praticabile per il timore di ulteriori discriminazioni.
I social in questo modo “chiederebbero” di esprimere questi pronomi in sostegno alla causa di un linguaggio non discriminatorio, mettendo molti in difficoltà e senza portare effettivi vantaggi per gli utenti discriminati. Il senso di questa novità, come suggerito da alcuni blogger, sarebbe rivolto principalmente a ottenere la posizione di chi sostiene questa causa, i cosiddetti “alleati”. Se tutti gli utenti indicassero come preferiscono essere chiamati si renderebbe evidente, ad esempio ai recruiter, come non sia da dare per scontato il genere di una persona solo sulla base del nome o della foto profilo.
Il singular they e l’italiano
Il problema per la nostra lingua, tuttavia, non si risolve. Se l’inglese dispone già nel suo repertorio di uno strumento facilmente adattabile, questo non può essere trasposto in italiano. È da sottolineare che i pronomi italiani hanno un valore ben inferiore rispetto all’uso che ne fa un parlante anglofono: in linea di massima, non è strettamente necessario esplicitarli per la costruzione della frase.
In aggiunta a ciò, il problema per l’italiano non si può limitare ai pronomi. La nostra lingua, infatti, marca come maschili o femminili sostantivi, aggettivi e participi passati, oltre ai pronomi. Anche usando il singular they, dunque, avremmo tutta una serie di indicatori di genere che rimarrebbero problematici.
Facebook e la discriminazione
Bisogna poi interrogarsi su un’altra questione ovvero la bontà delle intenzioni di Instagram nella scelta di introdurre questa novità. Ricordando che Instagram è un social appartenente a Meta, è bene sottolineare come ancora oggi, nonostante le precedenti indagini nel 2016 e nel 2019, l’algoritmo per le offerte di lavoro di Facebook discrimini in base al sesso.
Nella 2016 ProPublica evidenziò come gli inserzionisti potevano escludere fasce di pubblico identificate, tra le altre, per sesso o etnia. Dopo due anni di scontri legali, Facebook rimosse questa funzione. Pur essendo passato del tempo, molti problemi sono ancora presenti.
Un’indagine condotta da ricercatori presso la University of Southern California (USC) ha portato alla luce come l’algoritmo di Facebook mostri offerte di lavoro diverse, generalmente seguendo stereotipi duri a morire, in base al sesso del candidato, anche di fronte a candidati con qualifiche equivalenti. Se l’offerta di lavoro come ingegnere del software compariva principalmente a uomini, quella per venditore di gioielli veniva proposta principalmente alle donne.
Ben venga un linguaggio che non escluda nessuno, nei limiti delle possibilità delle lingue, ma non sarebbe meglio che chi ha realmente la possibilità di impattare sulla società faccia da esempio nel non discriminare? Nel momento in cui la società californiana, o qualunque altra in questi anni, decide di inserire queste nuove funzionalità per un linguaggio non discriminatorio, possiamo credere alla bontà delle loro intenzioni? O forse dobbiamo vederla come una strategia per ottenere l’approvazione di una più larga fetta di clienti? Probabilmente, la realtà sta nel mezzo. Ma l’ipocrisia rimane.
A cura di
Federico Villa
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