Guerra ibrida: rimossi profili pro-Cina

Sempre più casi di guerra ibrida vengono alla luce con il passare del tempo. A ogni nuova scoperta, capiamo meglio quanto governi o privati possano influenzare le nostre idee, pur rimanendo nell’ombra. L’ultimo di questi tentativi di guerra ibrida ha come protagonista la Cina.

Twitter e i profili cinesi

Spesso Twitter è stato terreno fertile per la diffusione di notizie false o, quantomeno, fuorvianti. Basta qualche ora su questo social network per imbattersi in profili fake, gestiti perlopiù da bot. Reti di questi falsi utenti amplificano poi tweet creati per manipolare l’opinione pubblica. Ovviamente, Twitter non apprezza questi abusi, e prova a difendersi.

Nelle scorse settimane, la società guidata da Jack Dorsey ha scoperto attività di disinformazione condotte dal governo cinese sulla sua piattaforma. Come conseguenza, il social network ha preso provvedimenti contro i profili fake coinvolti: sono quasi 24.000 gli account rimossi. Oltre a questi, altri 150.000 utenti sono stati sospesi in quanto accusati di amplificare, tramite la funzione di retweet e like, i tweet dei precedenti profili, favorendo il piano di guerra ibrida condotto dalla Cina.

La disinformazione cinese

L’obbiettivo di questa campagna di disinformazione era manipolare la percezione che gli altri paesi hanno della Cina. Più precisamente, gli account sostenevano le attività cinesi a Hong Kong e la risposta del Partito Comunista Cinese (PCC) al coronavirus. Un’indagine del «New York Times» ha accompagnato la scoperta di Twitter. Così è venuto alla luce che molti dei profili coinvolti erano estremamente grezzi, addirittura senza alcuna informazione nella biografia; molti non riuscivano ad arrivare a una dozzina di follower prima di essere identificati.

Se in passato queste attività cinesi erano volte a minimizzare le contestazioni riguardo Hong Kong e Taiwan, Twitter ha rilevato che in questa situazione l’attività si è concentrata soprattutto sulla gestione del coronavirus.

Una scelta di questo tipo fa capire che l’obiettivo del governo non era quello di influire sui cittadini. In Cina molti siti non sono accessibili se non tramite VPN (Virtual Private Network): reti di comunicazione private che permettono di evitare il firewall statale. Tra questi siti, figura Twitter. Gli obiettivi della campagna erano perciò i cittadini cinesi all’estero e l’Occidente in generale.

Guerra ibrida: Cina vs. USA

La scelta della Cina di agire in questa direzione deriva dalle discussioni, spesso usando toni accesi, con gli Stati Uniti. Da quando l’amministrazione Trump ha iniziato a sostenere la colpevolezza della Cina per quanto riguarda l’epidemia, il governo cinese ha cercato di replicare con forza alle accuse. Si è arrivati al punto che alcuni ufficiali cinesi sostengono, su Twitter, l’origine del virus in Nord America.

Già a febbraio gli account cinesi sostenevano che il virus fosse solo una strategia per creare panico in aggiunta alle tensioni di Hong Kong. Con il progredire dell’epidemia, a marzo, i profili coinvolti cominciarono a sostenere la risposta sanitaria cinese e indicarla agli USA come esempio da seguire.

La reazione cinese

In seguito alle azioni intraprese da Twitter, una portavoce del ministero degli esteri cinese ha attaccato il social network. Hua Chunying ha infatti ricordato allo stesso Twitter di non aver preso provvedimenti quando il Paese asiatico veniva accusato di aver creato il virus come un’arma biologica.

La Cina tende da tempo a mostrarsi come esempio da seguire nella gestione del virus, come traspare anche dalla parole della portavoce. Ha infatti affermato, in seguito alle dichiarazioni su Twitter, che ogni uomo privo di condizionamenti può confermare l’ottimo lavoro svolto dal PCC.

Guerra ibrida e Cina: il precedente

Non è la prima volta che una diatriba simile si verifica tra governo cinese e social network. L’anno scorso, ad agosto, Twitter affermò che la Cina utilizzava la piattaforma per mettere gli abitanti di Hong Kong gli uni contro gli altri.  L’obiettivo era screditare il movimento di protesta utilizzando (almeno) un migliaio di account. Poco dopo la segnalazione della società di Jack Dorsey, Facebook cominciò a indagare e in poche ore rimosse vari account, gruppi e pagine: gli amministratori di tali profili erano infatti legati al governo cinese.

Anche in questo caso va ricordato che Facebook e Twitter sono bloccati in Cina. Gli attivisti si sono organizzati soprattutto aggirando questo blocco, utilizzando connessioni VPN. Il governo ha deciso quindi di sfruttare il social proprio per rivolgersi a loro. Così i messaggi del PCC vengono diffusi dall’agenzia Xinhua, organo ufficiale del governo, sotto forma di articoli sponsorizzati.

 

A cura di

Federico Villa


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